L’industria alimentare è molto varia e, anche all’interno dello stesso settore, le metodologie e le filosofie possono cambiare enormemente. Il caso degli allevamenti intensivi è uno di quelli maggiormente polarizzanti e su cui il dibattito è sempre acceso: le opinioni non potrebbero essere più differenti tra gli allevatori che ne fanno uso e ne sostengono i benefici e gli allevatori che, dal lato opposto, hanno scelto una via diversa e più ispirata all’attenzione verso un sano stile di vita dell’animale che alle logiche prettamente commerciali, e che sono anche più sensibili alle questioni ecologiche.
Cos’è un allevamento intensivo e come si differenzia dagli altri allevamenti
Gli allevamenti intensivi, per come li conosciamo oggi, hanno visto la loro primissima apparizione durante la seconda metà del secolo scorso, quando, complice soprattutto l’enorme aumento della popolazione mondiale e i crescenti fabbisogno e richiesta di prodotti di origine animale – soprattutto dei Paesi più sviluppati, si è cercato un modo per aumentare la produzione di carni, latte, formaggi, uova, prodotti ittici, ma anche pellame, a costi relativamente ridotti.
Il concetto di allevamento intensivo, dunque, si distacca enormemente da quello, principe fino a quel momento, di produzione agricola. Infatti, al contrario della produzione agricola che prevede la presenza di ampi terreni a disposizione, gli allevamenti intensivi sono caratterizzati da:
- Spazi stretti e molto circoscritti: a volte chiusi, a volte vere e proprie gabbie o reti nel caso dei pesci, in cui l’animale vive gran parte della sua vita insieme a migliaia dei suoi simili;
- Controllo dell’animale a 360°, reso possibile per l’appunto dalla circoscrizione dello spazio: si possono individuare le problematiche relative ai vari capi e intervenire subito, ad esempio in caso di malattia;
- Più economico rispetto ad altri tipi di allevamento, poiché in poco spazio si può stipare un grande numero di capi di bestiame e sfruttare al massimo ogni risorsa;
- Infine, gli allevamenti intensivi, complice anche la loro origine, sono diffusi tutt’oggi soprattutto nei Paesi sviluppati.
Insomma, il concetto di allevamento intensivo è prettamente “industriale” e rientra nelle logiche tipiche di questo modus operandi, che però se non tenuto sotto controllo può prendere facilmente la deriva del “risparmio a tutti i costi”, con le pratiche poco etiche nei confronti dell’animale stesso che fanno sempre più spesso notizia.
Confronto con allevamenti estensivi e allevamenti biologici
Gli allevamenti intensivi non costituiscono l’unico modo per produrre prodotti di derivazione animale: infatti molti allevatori preferiscono altri tipi di allevamenti, in cui l’animale non è stipato in spazi ristretti ed è più libero di muoversi.
Gli allevamenti estensivi, infatti, sono caratterizzati da una vita all’aperto e in cui gli animali sono liberi di pascolare e sono più vicini alle loro condizioni di vita selvaggia. Prevede grandi aree a disposizione, spesso pascoli o colture foraggere, e la totale libertà di movimento degli animali allevati, sacrificando il controllo sugli stessi e con più difficoltà nell’individuare eventuali problematiche.
Un altro tipo di allevamento dagli ideali diametralmente opposti a quelli dell’allevamento intensivo, e che con quello estensivo condivide la volontà di lasciare gli animali liberi e in spazi ampi, è l’allevamento biologico. Esso, oltre a prevedere il pascolo all’aperto, è caratterizzato dal fatto di bandire categoricamente ogni sostanza artificiale o sintetica: dai concimi al cibo (spesso foraggio autoprodotto, oltre che pascolo) tutto deve essere di origine naturale, e sono perciò anche banditi i pesticidi chimici per le colture di foraggio.
Un’altra fondamentale caratteristica è che l’allevamento biologico prevede pochi capi; gli allevatori biologici, infatti, non sono interessati ad allevare una grande quantità di animali, il che rende più semplice dare a ciascuno le cure di cui necessita senza che essi siano chiusi in gabbie o costretti in spazi ristretti e sovraffollati.
Gli allevamenti biologici mantengono sempre un attento occhio sulla sostenibilità e sul benessere animale, e infatti anche le medicine non sono somministrate in via preventiva ma solo in caso di necessità e prediligendo farmaci omeopatici.
Gli allevamenti biologici, infine, per poter vantare di essere tali, devono soddisfare stretti requisiti normativi sulle condizioni degli animali e sul rispetto per il loro benessere.
Cause dell’inquinamento degli allevamenti intensivi
Una delle maggiori accuse agli allevamenti intensivi, accanto al fatto che molti allevatori e attivisti non credono che essi favoriscano davvero il benessere animale, è quella sul fortissimo impatto ambientale che essi hanno: infatti gli allevamenti intensivi sono responsabili di diverse forme di inquinamento nei territori in cui sono presenti, e anche del proliferare di malattie.
L’inquinamento degli allevamenti intensivi, infatti, deriva soprattutto da:
- Grandi quantità di prodotti di scarto degli animali e condizioni non sempre adeguate al loro smaltimento;
- Legato al primo punto, vi è l’alta produzione di anidride carbonica e altri gas serra: il Wwf ha evidenziato, in un report del 2021, come gli allevamenti intensivi siano causa di più del 14% delle emissioni di gas serra a livello mondiale proprio a causa dei prodotti di scarto che creano;
- Inquinamento delle falde acquifere nei dintorni dell’allevamento intensivo, sempre a causa dei prodotti di scarto mal smaltiti;
- Altissimo consumo d’acqua per il mantenimento dell’allevamento intensivo;
- Ettari di terreno sfruttati per l’allevamento intensivo come prati da foraggio e di altre colture per il cibo per gli animali (cereali, mais), con tutto quel che ne consegue: erosione del suolo, deforestazione, biodiversità a rischio;
- Inquinamento dell’aria causato dalle grandi emissioni di ammoniaca e polveri sottili provenienti dagli allevamenti intensivi: in Italia, ad esempio, ne è colpita soprattutto l’area della Pianura Padana;
- Infine, aumento del rischio di sviluppare malattie di origine zoonotica, ossia quelle malattie causate da agenti patogeni che fanno un “salto di specie” da un animale all’altro, compreso l’uomo.
Allevamenti intensivi in Italia e nel mondo
Come detto precedentemente, data l’esigenza che gli allevamenti intensivi sono chiamati a soddisfare – grandi quantità di prodotti di origine animale a prezzi accessibili alla massa, e conseguentemente costi di produzione più bassi – essi sono diffusi soprattutto nei Paesi più sviluppati. Sono due Paesi Occidentali, gli Stati Uniti e il Canada, a detenere il record del maggior numero di allevamenti intensivi presenti nel proprio territorio, data l’altissima domanda di carne e derivati animali e la vastità delle due nazioni.
A livello mondiale, gli allevamenti intensivi contribuiscono a creare il 57% dei più di 17 miliardi di tonnellate di CO2 e altri gas serra prodotte globalmente dall’industria alimentare in un anno.
In Italia, gli allevamenti intensivi costituiscono la fetta maggiore dei circa 140 mila allevamenti italiani di animali destinati al macello, e sono distribuiti soprattutto nelle regioni settentrionali, specie nell’area padana.
La Lombardia, ad esempio, è la regione italiana con il numero più elevato di allevamenti bovini e quelli suini, sebbene nel caso degli allevamenti suini si può notare un’altissima concentrazione nell’area tra Brescia e Modena; gli allevamenti di pollame, invece, sono più diffusi in Veneto.